martedì 3 maggio 2011

Le verità sulla morte di Bin Laden

Documento top secret  (livello 1 versione del Commando di fuoco)
Alle 12.00  ora locale abbiamo sorvolato a bassa quota il covo di Bin Laden. Abbiamo avvistato il soggetto al di sopra dell’edificio, che ha sparato contro gli elicotteri, riuscendo a danneggiarne uno. Dal secondo velivolo il sottotenente Jill ha colpito alla spalla destra il bersaglio, che vigliaccamente si faceva scudo di una giovane donna ferita mortalmente durante l’azione. Una volta ferito tentava di nascondersi nell’edificio, ma un altro colpo doveva averlo raggiunto alla testa, cosi come è stato ritrovato dopo l’irruzione nell’edificio. Durante l’irruzione non è stata incontrata altra resistenza e si è potuto portare via il corpo in tempi brevi.

Documento top secret (livello 2 versione della CIA)
L’ultima transizione finanziaria è stata eseguita alle 8.00 ora locale. Interlocutore unico dell’operazione è Kalim, colonnello delle forze armate pakistane orientali. Il Colonnello ha preteso garanzie per la sua futura elezione a presidente del Pakistan, facendosi consegnare l’intero dossier Kirzey e l’appoggio dei servizi segreti israeliani, che provvederanno all’assassinio di svariati capi tribali afgani e pakistani.
Ore 9.00 ora locale. Una volta esaudite le richieste, Kalim ha fornito le coordinate del covo e provveduto a giustiziare Bin Laden. Il colonnello ha provveduto ad incaricare un suo fedelissimo che “accoglierà” il commando delle forze speciali inscenando una debole resistenza, così da giustificare l’uccisione di Bin Laden. L’operazione è prevista per le 12.00

Intercettazione top secret (livello massimo)
Il documento risale alle ore 13.30 ora locale, ma è stato tradotto dopo tre mesi, a causa dei forti tagli al bilancio (nota del responsabile del servizio).
Soggetto A: “Kalim … Kalim … Kalim, l’operazione è riuscita, hai capito ?”
Soggetto B: “ dove sei?, cosa è successo?”
A: “Scappo in moto. Quei figli di cane degli Americani mi hanno colpito alla spalla destra, ma è niente rispetto al dolore che porto nel cuore. Ho dovuto uccidere l’uomo che amavo di più, a cui dovevo tutto, che Allah mi perdoni”
B: Ricorda che lo ha voluto Lui; ormai gli restava poco da vivere e il suo sacrificio ci permette di conquistare il Pakistan senza sparare un colpo! Saranno gli Americani e gli Israeliani a conquistare lo Stato per me. La sua morte non sarà vana, noi porteremo avanti il suo sogno, il sogno di Bin Laden”.
L’intercettazione si è interrotta

sabato 19 marzo 2011

fantasy 1

Dal suo corpo salì un bruciore intenso che lo avvolse, così intensamente da non fargli sentire il dolore delle ferite. Aveva perso molto sangue, ma la sua mente era lucida, tanto da capire che presto sarebbe stata la fine.
“io sono giunto alla mia ora” – sussurrò senza accorgersene – “ma il mio potere mi sopravvivrà” . il vecchio mago ebbe un sussulto e la larga tunica si rianimò. Impugnò il suo bastone, lo conficcò a terra nell’attimo stesso in cui dal cielo esplose un lampo che illuminò a giorno la grotta.
La luce lo aveva investito e per un attimo egli stesso era atterrito per l’ombra sottile delle sue artritiche braccia protese verso l’oscurità dell’antro.
Il sangue aveva ripreso a sgorgare denso e vivace, accumulandosi in pozze sul pavimento della caverna. Nell’antro buio continuava a rimbombare il temporale e il mago d’un tratto fu preso da un brivido di freddo e dal desiderio di morire da uomo comune, ma egli stesso sapeva che il suo potere era indispensabile alla sua gente per essere disperso nel nulla.
Alzò le braccia per dirigerle verso l’amuleto che aveva fissato sopra il suo bastone. Gli occhi fiammeggiarono e una possente aurea si irradiò dal suo corpo, mentre dalle sue labbra, appena percepibili, si distinguevano parole arcane.
All’esterno piombavano a ripetizione tuoni e lampi, mentre si era alzato il tagliente vento del nord che fece rabbrividire e ululare all’unisono i molti lupi delle foreste.
Un ultimo lampo improvviso illuminò la caverna e poco dopo entrò nella caverna un possente e famelico lupo dal manto bianchissimo. Aveva fiutato le tracce del mago e le aveva seguite spinto dalla fame. Con un balzo si avventò sulla carcassa dello stregone, che si dissolse al primo tocco della fiera. Lo stregone, divenuto una statua di sale, era ormai solo polvere. Sorpreso e stupito il lupo era rimasto nella nuvola di polvere senza capire. Del potente maestro di magia dei due mondi non rimaneva nulla, se non un mantello lacero e sporco di sangue, e il suo bastone conficcato nel terreno con sopra un piccolo ciondolo di giada finemente lavorato
La polvere cadendo aveva ingrigito il candido mantello del lupo. La belva costretta a respirare e inghiottire il fitto pulviscolo abbassò il muso che subito si tinse di rosso. La fame e l’eccitazione lo fecero beve con avidità da una piccola pozza riempita dal sangue del mago.
Il lupo bevuto e respirato delle spoglie dello stregone, come animato da una forza irriducibile, si drizzò sulle zampe anteriori e raccolse delicatamente il ciondolo tra le sue fauci.
Il sortilegio ero riuscito o meglio la prima pietra era stata posta; forse per il Regno di Acrabad una speranza ancora esisteva.

venerdì 18 marzo 2011

I Cammellini della memoria

Il console era ormai vecchio.
Quella notte, come ogni notte, stava facendo la doccia prima di andare a dormire. Mentre s’insaponava ricordava sua moglie Elisabetta: la rivedeva sorridente mentre lo prendeva in giro appoggiata al frigorifero; poi rivide suo figlio a cinque anni, una domenica mattina, con le sue ultime scarpe nuove; poi suo fratello Antonello, serio e immobile, in bianco e nero, proprio come nella foto che portava sempre con sé nel portafoglio. Quest’ultimo pensiero fu interrotto da qualcosa che al console sembrò il grido di qualcuno che precipita. Un grido quasi impercettibile, leggero come un sussurro. Il suo sguardo scattò sfiorando la tenda a fiori della doccia e scivolò giù, sino ai piedi: notò il solito vecchio callo, poi seguì l’acqua mista a schiuma che scorreva verso il mulinello; fu lì, fu nel vortice di acqua e di schiuma, che gli parve di scorgere un cammellino piccolissimo che si dibatteva ancora per un attimo prima di sparire nel buco dello scarico. Il console si sciacquò bene, si asciugò, indossò il pigiama, le pantofole e filò verso il letto. Non poteva essere stato che uno scherzo della stanchezza. Entrò nel letto che già pensava ad altro. Lesse quasi due pagine di un romanzo noioso e fu colto dal sonno senza avere il tempo di riporre il libro sul comodino, né di spegnere l’abat-jour.
Fece dei brutti sogni.
Verso la metà della notte ebbe un attimo di dormiveglia. Non apri gli occhi ma si accorse ugualmente di non aver spento la luce. Stava concentrandosi per trovare la forza di ordinare alla sua mano insonnolita di spegnere, quando, all’improvviso, si rese conto che intorno a lui c’era un’indefinibile animazione. Lentamente, trattenendo il respiro, apri gli occhi; ma li richiuse quasi subito. Con un movimento leggerissimo si morse a sangue l’interno della guancia: era sveglio. Questa volta socchiuse impercettibilmente solo una palpebra: i cammellini continuavano ad andare e venire sulla coperta a quadri, sul lenzuolo, sul cuscino; continuavano a entrare e uscire dalle sue orecchie con disinvoltura. Anche se aveva le ciglia quasi chiuse riuscì lo stesso a notare che le bestiole, ogni volta, uscivano dalla sua testa con un pacchetto tra i denti.
Cercò di ripetersi che era stanco, ma ormai non poteva più crederci: i cammellini c’erano veramente. Ed erano una moltitudine. Stavano attraversando le sue orecchie e portavano chissà dove pacchetti rubati, chissà come, nella sua testa. Dei predoncini sfacciati lo stavano depredando nel suo letto. Il console ebbe un moto d’ira ma riuscì a controllarsi. Un ronzio, come di mosca, lo informò che due di loro si erano fermati proprio all’ingresso di un orecchio e stavano conversando. Concentrò l’attenzione sul ronzio... li capiva; distingueva perfettamente ogni parola: parlavano del cammellino Markoskintu precipitato nello scarico della doccia. Erano molto contrariati.
Il console cercava di respirare piano, mantenendo sempre lo stesso ritmo.
Un cammellino chiese all’altro cosa avesse nel suo pacchetto e questi gli rispose che aveva un bel ricordo; disse che stava portando via l’immagine di Filippo con le sue ultime scarpe nuove. Il console ebbe un brivido, cercò nella memoria l’immagine di suo figlio Filippo con le sue ultime scarpe nuove e non la trovò. Aveva la sensazione che quell’immagine fosse stata sua per tanto tempo ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva a trovarla. - Adesso andiamo via - sussurrò un cammellino, e aggiunse:
- tanto non c’è fretta; abbiamo ancora due anni sette mesi e quattro giorni. –
Si allontanarono: uno salì su per il cuscino insieme a molti altri, l’altro, invece, scese lungo un braccio immobile del console; quando fu sulla mano questa scattò come una trappola e lo imprigionò.
Ci fu un fuggi-fuggi generale.
I cammellini erano travolti dal panico: quelli che si trovavano nei paraggi delle orecchie vi si precipitarono dentro, sparendo nella testa; gli altri si dispersero velocissimi alla periferia del letto. In un attimo nella stanza tutto tornò apparentemente calmo.
- Cosa accadrà tra due anni sette mesi e quattro giorni?
La voce del console era secca, come di chi non ha più saliva. Il cammellino prigioniero fra le dita era confuso, ma seppe comportarsi in modo ineccepibile. Subito si scusò anche a nome di tutti i suoi colleghi per essersi lasciato sorprendere; poi disse che era davvero dispiaciuto, che incidenti come questo non erano capitati più di quattromila volte in tutta la storia dell’umanità, e avrebbe sicuramente continuato a tergiversare se il console, con decisione, non avesse ripetuto la domanda. Il piccolo prigioniero, questa volta, fu preciso ed essenziale:
- Fra due anni sette mesi e quattro giorni, esattamente alle ore ventuno e trentasei, tu morirai. –
Il console non batté ciglio, ma il cammellino dovette ritenere ugualmente di essere stato un po’ brutale. Quando, dopo una breve pausa, riprese a parlare, il suo atteggiamento era quasi affettuoso:
- Io e i miei colleghi - disse - siamo i cammellini della memoria e portiamo via i ricordi a chi sta per morire. –
Parlava con un lieve accento straniero
- Purtroppo non sempre riusciamo a fare per tempo questa operazione di trasloco. Certe persone, a volte giovanissime, muoiono improvvisamente; per certe altre, anche se anziane, ci viene comunicata troppo tardi la data del decesso; alcuni addirittura si uccidono di loro iniziativa, e un suicida, come saprai, muore con tutti i suoi ricordi. Tu sei stato fortunato, per te siamo stati avvertiti in tempo: abbiamo iniziato il trasloco già da venti giorni, lentamente. Tra due anni sette mesi e quattro giorni, alle ventuno e trentasei precise tu morirai con pochi ricordi indispensabili e secondari. –
La voce del console questa volta era solo stanca:
- Voglio morire adesso, portate via i ricordi e fatemi morire subito. - disse, e aggiunse - Per favore. –
Il cammellino ci pensò un po’ su poi decise che lo avrebbe accontentato. Era il meno che potesse fare:
- Ma ti devo informare che l’infarto per il quale saresti dovuto morire fra due anni sette mesi e quattro giorni non può, per regolamento, essere anticipato. Dunque morirai di morte pura. Accadrà domani notte, in questo stesso letto. La morte ti ucciderà senza travestirsi da malattia, né da incidente, né da nient’altro. Non fornirà spiegazioni tecniche per alcuno: sarà morte, e basta. Il console abbassò il pugno sul cuscino e lo aprì: il cammellino si sgranchì bene le gambe e le gobbe, poi, trotterellando, rientrò nell’orecchio. Ma si trattenne poco. Un attimo dopo, infatti, stava già galoppando verso i margini della coperta e salutava col braccio. Il console rivide il figlio con le sue ultime scarpe nuove, poi passò la notte a ricordare. Il mattino seguente si alzò molto presto e, come sempre, scese a piedi le scale; aveva sempre evitato gli ascensori. Giunto sul marciapiede attese nell’aria fresca che passasse un camion interminabile; poi attraversò la strada. Sarebbe stata una giornata speciale. Quando salì sull’autobus numero dodici era già buio. Attese la sua fermata guardando fuori dal finestrino. Giunto a casa si spogliò, si fece la doccia, si lavò i denti, indossò il pigiama e si mise a letto. Inaspettatamente si addormentò quasi subito.
I cammellini non si fecero attendere: alcuni uscirono dalle sue orecchie, altri, moltissimi, arrivarono da chissà dove.
Si portarono via la moglie Elisabetta mentre, sorridente lo prendeva in giro appoggiata al frigorifero; suo fratello Antonello serio e immobile in bianco e nero come nella foto che portava sempre con sé nel portafoglio; suo figlio a cinque anni, quella domenica mattina, con le sue ultime scarpe nuove. Poi un altro ricordo, e un altro, e un altro ancora. In meno di un’ora si portarono via tutti i ricordi. Un ultimo cammellino si portò via il ricordo dei cammellini. Nella stanza, terminato quel brulicante viavai, tutto era tranquillo: si sentiva soltanto il respiro profondo del console.
Dopo un po’, nell’orizzonte limitato della coperta a quadri, apparve un dromedarietto grigioperla. In breve superò la coperta e si distese in un galoppo sfrenato sul bordo del lenzuolo, scalò il cuscino e scese sulla spalla del vecchio. Quando infine, districandosi tra le pieghe del pigiama, fu sul petto, si fermò, chinò il capo e morsicò in profondità, verso il cuore, coi suoi denti di ghiaccio. A quel punto per il console fu solamente la fine di un sonno senza sogni.

giovedì 10 marzo 2011

Vicini di casa 1

Alcune persone appena le incontri già conosci il loro pensiero, il lavoro, per chi voteranno, quali gusti sessuali prediligono, mentre altri anche dopo 20 anni se sicuri che non riuscirai mai a capire nulla di  loro.
Arturo aveva la sfortuna di abitare accanto a uno di questi fumosi ectoplasmi. Si chiamava Cristoforo e in sei anni di vita vissuta come vicini di casa, sullo stesso pianerottolo, nulla aveva saputo di lui. Vive da solo con un cagnaccio, fumava quelle sigarette per signora lunghe. Non era di bell’aspetto per colpa dei pochi capelli e di una dentatura, ormai ceduta in più punti.
Arturo aveva provato di tutto per conoscerlo: avvicinarlo alle assemblee condominiali, invitarlo a cena o a prendere un caffè, inscenare un incidente domestico, ma l’entità per l’uno o per l’altro motivo gli era sempre sfuggito. In sei anni aveva ottenuto solo qualche scarno sorriso che aveva messo in mostra la malandata dentatura e qualche istantaneo saluto sempre accompagnato da secchi colpi di tosse, causati dalle sigarette o dalla cattiva disposizione a parlare.
Arturo era arrivato al punto di origliare e spiare i suoi movimenti, ma prima che l’ossessione divenisse mania decise di smettere ed adottare una nuova strategia. L’impenetrabile corazza aveva un punto debole: Cristoforo aveva un cane. L’idea gli balenò una sera d’inverno, mentre lo vide uscire per accompagnare il cagnaccio durante una quasi tormenta di neve coperto da un liso impermeabile, grigio scuro, l’unico – penso – che gli permetteva di mimetizzarsi tra le macchine parcheggiate. Arturo dalla finestre osservò per un secondo lo scena, poi rivolse lo sguardo verso il cane era uno di quegli orrendi bulldog francesi con lunghe orecchie da pipistrello e una spropositata testaccia, mal piantata su un piccolo corpo, che la natura nella sua misteriosa benevolenza aveva donato di una muscolatura possente, utile solo a portare in giro quel grosso capoccione bizzarro.
Arturo aveva già in testa il suo piano: lo avrebbe seguito e una volta trovato il giardinetto in cui portava a defecare l’orrenda creatura, l’avrebbe avvicinato , intrecciando un socievole rapporto  tra uomini con guinzaglio. In fondo cosa esiste di più piacevole che parlare in un parco, mentre tutt’attorno un orrida mandria di cani infesta l’aria di odori e gridi, o magari impunemente tenta di accoppiarsi sotto gli occhi della zitella e invidiosa pardroncina.
Esisteva solo un problema: Arturo non aveva un cane. Seppure l’idea lo facesse rabbrividire ne comprò uno. Dovette essere la vendita più veloce , che “Fuffi”, il negozio di animali dietro l’angolo avesse mai fatto. Alla ciccione della commessa domandò solo quale fosse che mangiasse e vivesse di meno tra quelli in vendita. La commessa sgranò gli occhi e senza nemmeno parlare indicò una specie di pulce isterica, che scodinzolava con la sua mezza coda al di là di un vetraccio sporco di tutto. Lo presi e scappai da quel negozio che puzzava di cibo per cani ed escrementi d’uccello, sicuro di aver fatto un grande errore.

mercoledì 2 marzo 2011

Storie "Da piccoli palpiti"

La lenta carovana prese a muoversi. Davanti un pigro trattore, di quelli che lanciano terra da ogni parte, e a seguire le piccole auto nervose. Proprio in mezzo alla fila c'ero io, con le mani piantate sul volante di un vecchio peugeot disel (quasi più rumoroso del trattore).
Il mio fidato rottame aveva trascorso con me 13 anni e 300.000 Km e lì dentro si era accumulato tutta la mia esistenza, dispersa tra gli angoli dell'abitacolo, così in disordine come era trascorsa.
Amo quella macchina!
La fila si fermò di colpo, era impossibile vedere oltre quel trattore; pensai a chissà cosa era successo. Fu un attimo e dal cofano si alzò una fitta nebbiolina bianca. Era la ventola, mi tormentava da due anni, non era servito nè cambiarla, nè supplicarla di funzionare. Balzai fuori dall'auto e con uno stanco movimento mi precipitai ad aprire il cofano, senza pensare svitai il tappo dell'acqua e un gaiser di vapore mi colpì in pieno la mano. Urlai dal dolore e solo allora mi accorsi che la fila si era dileguata. Tutti mi sorpassavano, mentre da un finestrino un bambino con un orribile berretto da basket rideva divertito.
Era la mia macchina e la odiavo, come odiavo la mia vita. Accolsi la mia mano dolorante e arrossata nell'altra e potei solo sussurrare: Buongiorno, Buongiorno Arturo.